L’isola che (purtroppo) c’è
L’anno è il 1928. Herman Sörgel vibra dall’emozione mentre illustra il suo progetto utopistico: Atlantropa. Il progetto prevede la costruzione di dighe negli stretti di Gibilterra, dei Dardanelli e la chiusura del canale di Suez, oltre ad una serie di fantascientifiche dighe tra la Tunisia, la Sicilia e l’Italia.
L’obiettivo di questo titanico sforzo? Semplice: prosciugare in parte il Mediterraneo per ottenere una superficie di 660.000 km² da impiegare come superficie coltivabile per rendere l’Europa autosufficiente.
Il povero Herman non ebbe fortuna, il suo piano prevedeva la cooperazione internazionale per il titanico progetto, cosa non gradita a Hitler. Il progetto avrebbe inoltre cancellato la funzione strategica dei grandi porti di Trieste, Genova, cosa che gli alienò le simpatie dell’opinione pubblica italiana.
Sörgel morì nel 1952 e i suoi roboanti progetti morirono con lui. Eppure il caro Herman oggi sarebbe orgoglioso di noi. Mai si sarebbe potuto aspettare che a poco più di sessant’anni dalla sua morte l’uomo avrebbe sottratto agli oceani una superficie stimata tra i 700.000 km² e i 10 milioni di km². Il tutto senza la costruzione di dighe imponenti e sofisticate pompe di drenaggio, ma grazie ad una sola scoperta: la plastica.
Dalla scoperta della prima isola di spazzatura, nel 1988, le grandi isole di plastica presenti negli oceani del nostro pianeta sono annoverate tra le più grandi catastrofi ambientali per la presenza della vita sulla Terra.
Ma come siamo arrivati a questo punto?
Innanzitutto bisogna fare chiarezza. Quella che comunemente chiamiamo plastica in realtà è un insieme di prodotti diversi, ma che hanno in comune una cosa: sono polimeri. Chi ha fatto il liceo forse se lo ricorderà: i polimeri sono lunghe catene di molecole più piccole, chiamati monomeri. Le materie plastiche che ci circondano derivano in larga parte dal petrolio, ma non tutte.
Nel 1855 fu sintetizzato per la prima volta il Rayon, un polimero a base di cellulosa ottenuto dalla lavorazione del legno o del cotone: il primo caso di un polimero sintetizzato dall’uomo. La razza umana però era entrata già in contatto con altri polimeri naturali, come la cellulosa e il caucciù.
Quest’ultimo materiale porta con sé una storia particolarmente tragica. L’insaziabile fame di materie prime e profitti ha scritto una delle storie più vergognose del colonialismo europeo in Africa. Per strappare il monopolio della gomma agli stati nati da poco nel Sud America, attorno alla foresta amazzonica, la pianta da cui si otteneva il lattice necessario venne importata in Africa.
Nel 1885, dopo il Congresso di Berlino, il re del Belgio Leopoldo II decise di sfruttarle come un dominio personale. Impose ai villaggi delle quote di gomma e chi non riusciva a rispettarle poteva pagare con una sola moneta: mani umane. La polizia coloniale terrorizzava i villaggi compiendo atrocità contro uomini, donne o bambini. La psicosi era tale che abbiamo resoconti di villaggi che ingaggiano lotte fratricide per mutilare i vicini e salvarsi dalle masnade di Leopoldo II.
Oltre alle atrocità commesse ai danni della popolazione, i colonizzatori sfruttarono la fauna locale per ottenere un materiale indispensabile per la produzione di oggetti di lusso e strumenti musicali: l’avorio.
Il periodo che va dalla seconda metà dell’ottocento alla prima guerra mondiale vede un mondo sempre più orientato al progresso: tecnologico, scientifico, artistico e anche tecnico. Purtroppo le risorse necessarie a questo sviluppo non si trovano tutte in Europa, il che spinse molti Stati alla conquista di ampie parti del mondo conosciuto e a creare imperi per produrre materie prime e potenziare il mercato dei prodotti della madrepatria.
Immaginiamo di trovarci in questo mondo,
alla frenetica ricerca di materie prime. Immaginiamo di vivere in un periodo storico in cui vengono sintetizzati i primi polimeri sintetici. Le materie plastiche sono un materiale straordinario. Hanno tutte le caratteristiche ricercate dagli uomini dell’epoca: sono notevolmente resistenti, impermeabili, possono essere prodotte su vasta scala, alcune di esse sono duttili se riscaldate, altre hanno proprietà termoisolanti, sono complessivamente economiche, ma soprattutto non sono deperibili.
Se non nessuno, certamente pochissimi avrebbero potuto prevedere l’impatto di questa scoperta. A partire dal secondo conflitto mondiale, la plastica viene utilizzata a fini militari, soprattutto dalle potenze alleate che hanno accesso a maggiori risorse petrolifere rispetto all’Asse.
Conclusa la guerra, la plastica entra nella vita di tutti i giorni. Lo sviluppo ingegneristico permette un aumento della produzione e la riduzione dei costi. Senza la plastica non potremmo parlare di società consumistica e non avremmo l’attuale rapporto con la plastica senza il consumismo. Complice di questo sviluppo industriale esponenziale, anche l’Italia; fu proprio Giulio Natta, professore di Chimica del Politecnico di Milano a sintetizzare per la prima volta il polipropilene, plastica che ha rivoluzionato il mondo.
L’impiego delle materie plastiche ha permesso ad una parte della popolazione di accedere ad un benessere mai conosciuto in tutta la storia dell’umanità. Ha avuto un impatto decisivo nel miglioramento delle condizioni sanitarie negli ospedali, invenzioni come lavatrice e lavastoviglie commercializzate su vasta scala hanno contribuito significativamente all’emancipazione femminile, lo stesso internet non è concepibile senza computer, tablet o cellulari composti di plastica.
Le materie plastiche non sono dunque un nemico ma lo è invece l’abuso e il rifiuto dell’umanità di farsi carico delle conseguenze dell’enorme sviluppo della seconda metà del XX secolo.
La conclusione qual è? Che non serve a nulla demonizzare le materie plastiche, bensì bisogna acquisire consapevolezza su quello che ha significato per l’essere umano e per gli sviluppi che la tecnologia offre per migliorare, sostituire e ridurre i danni delle materie plastiche.
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